LA «VOLANTE» (Da Don Camillo e il suo gregge – Guareschi)

Era una sera di febbraio e pioveva e le strade della Bassa erano

piene di fango e di malinconia.

Don Camillo, davanti al fuoco, stava sfogliando una raccolta di

vecchi giornali, quando arrivò qualcuno a spiegargli che stava

succedendo qualcosa di grosso.

Allora don Camillo lasciò il libraccio e, buttatosi addosso il tabarrone

nero, corse in chiesa.

«Gesù» disse «ci siamo ancora col figlio di quel disgraziato!» «Di

quale disgraziato parli?»

«Il figlio di Peppone. Dev’essere poco simpatico al Padreterno…»

«Don Camillo, come osi dire che esistano esseri umani più o

meno graditi al Padreterno? Dio è uguale per tutti.»

Don Camillo stava frugando in un armadietto e parlava col Cristo

Crocifisso, stando dietro l’altare.

«Gesù» rispose «il figlio di Peppone questa volta è spacciato e

mi hanno mandato a chiamare per dargli l’Olio Santo. Un chiodo

arrugginito, roba da niente… E adesso muore.»

Oramai aveva trovato tutto quello che gli occorreva: passò ansimando

davanti all’altare, si inginocchiò in fretta poi scappò

via. Ma non corse molto: arrivato a metà della chiesa, si fermò

e tornò indietro.

«Gesù» disse quando fu davanti all’altare. «Io devo farvi un

lungo discorso, ma non ho tempo. Ve lo farò lungo la strada.

L’Olio Santo ve lo metto qui, sulla balaustra. Non lo porto.»

Camminò in fretta sotto la pioggia e, soltanto quando fu arrivato

davanti alla porta di Peppone, si accorse che aveva il cappello in

mano. Si asciugò la testa con un lembo del tabarro e bussò.

Venne ad aprirgli una donnetta che lo precedette e bisbigliò

qualcosa affacciandosi a una porta. E allora si udì un urlo immenso

e la porta si spalancò ed apparve Peppone.

Alzò i pugni. Aveva gli occhi iniettati di sangue.

«Via!» urlò. «Via di qua!»

Don Camillo non si mosse.

La moglie e la madre di Peppone si aggrapparono a lui disperatamente,

ma Peppone pareva impazzito e sí scagliò su don Camillo

afferrandolo per il petto.

«Via di qui!» urlò. «Cosa volete voi? Siete venuto a liquidarlo?

Via o vi strozzo.»

Bestemmiò ed era una bestemmia atroce, una bestemmia da

far impallidire il cielo. Ma don Camillo non si turbò:

lo scostò con un urtone ed entrò nella stanza del bambino.

«No!» urlò Peppone. «No, l’Olio Santo no! Se gli date l’Olio

Santo vuol dire che è finito!»

«Di che Olio Santo parli? Io non ho nessun Olio Santo con me.»

«Giurate!»

«Giuro.»

Allora Peppone si calmò di botto.

«Non avete portato l’Olio Santo?»

«No. Perché dovevo portarlo?»

Peppone guardò il medico poi guardò don Camillo. Poi guardò il bambino.

«Di che cosa si tratta?» domandò don Camillo al dottore.

Il dottore scosse il capo.

«Reverendo, qui, soltanto la streptomicina potrebbe salvarlo.»

Don Camillo strinse i pugni.

«Solo la streptomicina lo può salvare? E Dio no?» urlò. «Dio c’è dunque per niente?»

«Io faccio il medico, non il prete.»

«Voi fate schifo!» gridò don Camillo.

«Bene!» approvò Peppone.

Don Camillo era oramai lanciato.

«Dov’è questa streptomicina?»

«In città» rispose il dottore.

«La si va a prendere!»

«Arriveremo sempre troppo tardi, reverendo. È questione di minuti.

Non c’è nessun mezzo per arrivare in città.

Il  telefono e il telegrafo sono interrotti per via del temporale.

Niente da fare.»

Allora don Camillo tirò su il bambino, lo avvolse nella coperta e nella trapunta.

«Sbrigati!» gridò a Peppone «chiama quelli della squadra!»

Quelli della squadra stavano aspettando nell’officina: c’erano lo Smilzo e l’altra robaccia giovane.

«Ci sono seí motociclette in paese: io vado da Breschi a prendere la “Guzzi” da corsa, voí andate a prendere le altre.

Se non ve le danno, sparate!»

Scattarono. Don Camillo corse da Breschi.

«Se non mi dai la moto, questo bambino muore. E se muore io ti rompo il collo!» disse don Camillo.

Non aprirono neanche la bocca e gli piangeva il cuore pensando alla «Guzzi» da corsa, nuova di zecca,

buttata allo sbaraglio in mezzo al fango e alla notte.

Dieci minuti dopo la squadra era al completo, sulle motociclette rombanti.

C’era qualche testa rotta in qualche casa, ma don Camillo disse che questo non aveva importanza.

«Siamo in sei: uno deve arrivare per forza in città» spiegò don Camillo.

Egli era a cavalcioni della «Guzzi» da corsa, rossa e scintillante, e aveva il bambino in grembo.

Se lo fece assicurare bene col mantello e una corda, poi partì.

Due davanti, due dietro affiancati, in mezzo don Camillo e, davanti a tutti, Peppone sulla enorme «DKW» di Bolla,

lungo le strade buie e deserte e squallide della Bassa, la «Volante» saetta sotto la pioggia.

La strada è viscida, le curve improvvise e insidiose.

Le ruote rasentano i fossi, i muri: ma la «Volante» non si ferma.

Via, via, via dentro il fango, in mezzo al ghiaietto.

Ed ecco la grande strada asfaltata.

Le macchine rombano, ed è una corsa folle.

Ma, a un tratto, don Camillo sente un gemito doloroso uscire

dal fagotto che ha in grembo. Bisogna far più presto.

«Gesù» implora don Camillo a denti stretti. «Gesù, dammi ancora del gas!»

Ed ecco che la «Guzzi» ha come un balzo. Pare che dentro i cilindri

abbia tutta la fabbrica di Mandello con la commissione interna al completo.

Via, via!

Lí passa tutti e Peppone se la vede sgusciare di fianco e non può seguirla perché non ha più niente da girare:

lui non ha un Gesù come quello di don Camillo cui chiedere ancora del gas!

Corre la «Volante» nella notte, ed è una corsa infernale, ma don Camillo vola.

Don Camillo non seppe mai come arrivò.

Gli dissero soltanto che egli arrivò con un bambino in braccio, prese per il collo un portiere d’ospedale,

poi spaccò con una spallata una porta, poi minacciò di stritolare la testa a un dottore.

Il fatto è che la «Volante» ritornò senza il bambino, che oramai

aveva bisogno soltanto di un po’ di riposo nella sua bella camerina all’ospedale.

Ritornò la «Volante» la notte stessa, ed entrò in paese rombando, piena di glorioso fango.

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